Il bingo di Garlasco

Ogni giorno, su tutte le reti. Non è giornalismo d’inchiesta ma superficialità

Premetto di essere un giornalista professionista iscritto all’albo dal 1988,  “tutor” di vari praticanti all’esame di Stato.
Vengo al dunque, ai palinsesti delle reti Rai e delle emittenti a capitale privato, italiano e internazionale, articolati da mesi sui conflitti in Ucraina, nella Striscia di Gaza, sui bombardamenti dei siti iraniani d’arricchimento dell’uranio e, last but not least, sul delitto di Garlasco, ormai un classico dall’audience assicurata.

Mi permetto una digressione esemplificativa: iniziata l’operazione militare speciale, così definita dal Cremlino, giornalisti, politologi, opinionisti e neurologi osservarono i movimenti della gamba destra di Putin e concordarono che sarebbe morto comunque entro sei mesi, per una neoplasia cerebrale o per un’irreversibile patologia degenerativa. Gli stessi, ad esclusione dei neurologi, scandagliarono la ridotta schiera dei possibili successori, al vertice dell’ex (?) Unione Sovietica; non ne giunsero a capo e conclusero che quello non era Putin ma uno dei suoi tre o quattro sosia. Mesi e mesi di parole al vento.

Non diversamente era accaduto nel 2001, quando Bin Laden e il suo Kalashnikov minacciavano sfracelli in Occidente e fummo rassicurati dell’imminente individuazione del nascondiglio grazie alla classificazione di un pool di geologi delle pareti di roccia alle spalle del terrorista, le cui ingenti fortune finanziarie erano state gestite da un membro della famiglia del presidente statunitense George W, Bush.  Altre fandonie asseverate da fonti mai messe in dubbio, mai verificate e smentite.

Che il delitto di Garlasco (2007) – due assoluzioni, la condanna a Stasi nel processo di revisione, la conferma in Cassazione – diciotto anni trascorsi tra legittimi dubbi sia, mutatis mutandis, mediaticamente paragonabile al caso Bellentani dell’immediato dopoguerra (1948), al delitto Fenaroli (1958), al caso Orlandi (1983), a quello di via Poma di 35 anni fa e di Cogne (2002) è evidente, come lo è la sua iscrizione nel disgraziato elenco dei misteri italiani, dalla morte di Enrico Mattei al DC 10 di Ustica, al mostro di Firenze.
Non c’entrano la mafia, la massoneria, i poteri occulti, i servizi segreti deviati, la Cia. È stata un’esecuzione ad oggi non decriptabile. Non si è certi neppure di quanti fossero gli esecutori e i complici, neanche il delitto fosse stato commesso da uno o più killer professionisti e non da qualche ragazzotto della mai esistita Padania.

Garlasco è la tragedia di una borghese famiglia normale, non ricca non povera, in un paese di normale noia, nella cerchia di amicizie e frequentazioni apparentemente tali. 
Twin Peaks nella nebbia con un rotolo di risvolti che solo la magistratura potrebbe dipanare. Al dubitativo. Sul pubblico, l’effetto è lo stesso: non si è perso una sola puntata dello sceneggiato di David Lynch e Mark Frost come non perde il tentativo di ricomposizione del puzzle dell’assassinio di una ventiseienne che avrebbe potuto essere la ragazza della porta accanto, una collega, una sorella, una figlia, una fidanzata. Tra informazione e voyerismo, come per l’adolescente Yara Gambirasio, uccisa nel 2010: dieci libri, ricostruzioni – un paio ben fatte – e sceneggiati.

L’assassinio di Chiara Poggi, nelle indefinite more dell’individuazione del o dei colpevoli, è una rubrica fissa e condivisa nelle diverse fasce di trasmissione. Nel segno della rincorsa all’opinabile, alla suggestione, alle dirette enfatizzate e dannose, al permanente bivacco davanti alla villetta della famiglia Poggi. Pseudo giornalismo fatto male, perché c’è modo e modo anche per non incedere nello splatter mediatico, nella pruriginosa zona d’ombra delle supposizioni e della calunnia. Il bingo dei sospettati è una falena roteante.
Non un delitto passionale, non una rapina, non un gioco erotico finito male. Altro.
Un pinzimonio di ipotesi ogni giorno rincarate dalla tivù che pure qualcosa deve dire perché qualcos’altro lo dirà la concorrenza. Petardi, più che fuochi d’artificio. 

Ma un giornalista di cronaca nera e di giudiziaria, non un improvvisato cronista con microfono che rincorre il malcapitato che non vuole farsi intervistare, scrive sempre meno di quanto sa. Tiene più di qualche notizia nella faretra. Discrezione assoluta, prudenza, mai un azzardo, verifica su verifica, attesa, riscontro. I fatti da una parte, le opinioni dall’altra, meno aggettivi ci sono, meglio è. Un giornalista formato in redazione, si sarebbe accorto del gioco di parole di Chiara che aveva scritto di vivere una condizione sentimentale di stasi. Non di pausa ma di Stasi.

Oltre alla ferita aperta della famiglia Poggi, che bene ha fatto a rispedire al mittente le insinuazioni sulla moralità della figlia, scatta nell’opinione pubblica il meccanismo del partigianato di pelle. Mi è antipatico, è colpevole. Un marchio a fuoco anche in caso di assoluzione. Quella ha la puzza al naso. Sa qualcosa di grosso.
Scriveva Simonide di Ceo: Niun della morte è immune, E niun del biasimo. Infatti.

Stasi, Sempio, le sorelle Cappa, figlie di un influente avvocato – e perché una delle due ragazze è anoressica e davvero il livido sul corpo di Chiara potrebbe essere stato provocato dalla stampella della cugina in segno di disprezzo? – il testimone segreto, le ritrattazioni, l’intelligenza artificiale, i droni, gli acetati per il DNA, l’amico che ha preso i voti, l’altro che si è suicidato, la pedofilia nel vicino santuario, i siti porno, il fantasmatico amante agé di Chiara, le cartelle a luci rosse nel computer condiviso con il fratello e da questi con gli amici, l’impronta “10” che non è risolutiva, anzi, è un due di picche; sotto le unghie di Chiara c’è chissà chi lo sa; la «testa» di una mazzetta da muratore, una pinza da camino, i resti di due asce da boscaiolo, possibili reperti trovati già da anni nella canaletta di Tromello, le impronte sul muro, quelle delle suole, la cornetta del telefono – ma è sangue o non lo è ? – la spazzatura, la donna vista allontanarsi in bicicletta nel giorno e nell’ora del delitto. Era Stefania Cappa, arrivata trafelata a casa con una borsa pesante di cui si sarebbe liberata gettandola nel corso d’acqua? 
E il fratello di Chiara che era in vacanza forse si e anche no e via così, pur nella riservatezza della Procura della Repubblica di Pavia e nell’ormai percepibile inadeguatezza dell’inchiesta sfociata, in ultimo, nella condanna del bocconiano fidanzato di Chiara, Alberto Stasi.

Avvocati come guest stars, colpevolisti e innocentisti, abbronzati e pallidi, capelli tinti e canuti, probabilisti e fantasiosi, giacche di cachemire e maniche di camicia, criminologi, semisconosciuti richiesti di ciò che non sanno ma che parlano senza dire, oggi ospiti di una rete e domani di un’altra, in concorrenza di audience con un programma sulla coda alla vaccinara e un altro su seminudi decaduti dell’audience sulla spiaggia di un finto Cast Away.

Ora, c’è la nuova impronta numero 44 sul muro delle scale che scendono nella tavernetta dov’era il corpo di Chiara. È davvero legata alla 33 dei polpastrelli sul muro attribuiti ad Andrea Sempio? Se ne troveranno altre, decisive fino alla smentita della scienza?
La domanda del giorno riguarda la quantificazione dell’indennizzo da parte dello Stato ad Alberto Stasi in caso di proscioglimento. Come valutare un danno non reversibile? Almeno dieci milioni “tenuto conto di tutto”. Di tutto cosa? Immaginiamoci le diatribe ex post sul dovuto e il non dovuto e se gli sia dovuto. Come fosse l’ingaggio di un calciatore.

All’esame di stato, scelsi la traccia sulla Carta di Treviso che tutela i diritti dei minori nell’informazione. Il magistrato che presiedeva la commissione, mi interrogò per primo e mi chiese cosa gli avrei risposto se mi avesse intimato di dirgli quali fonti avessi consultato per la stesura di un articolo. Se le rispondessi, signor giudice, dovrei cambiare mestiere.
Sono trascorsi molti anni, anche per il codice deontologico.
Il giornalismo è un mestiere di servizio, non di protagonismo, non di comparsate, non è cosa da opinionisti d’accatto, forti di una condivisa superficialità.
Chi non lo sa, fa un altro mestiere di cui non percepisce i limiti morali, etici e comportamentali.  C’è un Ordine dei Giornalisti in ogni regione. A Roma, c’è la sede nazionale.
Dopo tutto.