La crisi di una famiglia, l'Europa e la fine di un'illusione
La notte pioveva la tristezza di un’ultima volta.
Tony Buddenbrook era una delle otto donne vestite di nero nel salotto della villetta di Lubecca, per l’addio a Gerda, vedova del capofamiglia Thomas Buddenbrook e madre di Hanno, il ragazzino lieve, appassionato di teatro e di musica, morto di tifo qualche mese prima.
Gerda la violinista non aveva nulla da condividere se non il dolore sordo della femmina che ha perso il cucciolo. Sarebbe tornata per sempre in Olanda, dai suoi.
Tony abbassò gli occhi e puntò il naso in aria. Ah, ci sono ore, in cui non c’è conforto, Dio mi punisca, in cui si perde fiducia nella giustizia, nella bontà…in tutto. La vita, sapete, spezza tante cose dentro di noi, distrugge tante certezze…
La linea maschile dei Buddenbrook era estinta. Christian, l’emotivamente fragile, scombinato fratello di Tony e Thomas, era da tempo in clinica; la moglie era in combutta con il medico che ne aveva disposto il ricovero. Non ne sarebbe uscito vivo.
Parlavano, le otto donne a lutto e intonavano, come in un coro a cappella, il Lacrimosa di un Requiem in un effetto di pianto trattenuto, fino all’Amen! che suggellava il funerale ai decenni di vita condivisa, nella certezza del composito di valori fatti propri dalla borghesia tedesca che si era scoperta fragile, perché meno pragmatica, con una volontà costruttiva ridotta al mantenimento dello status quo.
Contagiata da dubbi sociali, dalla convivenza ravvicinata con il gradino inferiore della scala prosaicamente valoriale vicina alla deflagrazione, minata dalle conseguenti interferenze reciproche, la borghesia campava nella bambagia ingiallita di un irreversibile torpore.
Johann Buddenbrook, fondatore nel 1768 dell’azienda che commerciava granaglie, poi fornitrice dell’esercito del re di Prussia, era stato il capostipite di una casata di solidità teutonica, di cui nessuno avrebbe immaginato il declino nel volgere di un secolo, imputabile non tanto alle alee imprenditoriali di chi “sta” sul mercato internazionale, quanto alla frattura interna delle pietre angolari che avevano sorretto l’architettura di una cellula famigliare cresciuta, affermata e decaduta, come è nella cifra esistenziale di ogni specie vegetale, animale e sociale, nonostante avesse vantato un ambasciatore e un senatore e palazzi e beni attestanti il suo status, non meno di quanto ne fosse stato il simbolo, la monumentale tomba di famiglia.
Undici anni prima del diluvio notturno, Austria e Prussia si scontravano. Era il 1866.
Nel 1871, l’esito della guerra franco-prussiana unificava la Germania.
A Bayreuth, nel 1876, viene rappresentato per la prima volta il ciclo completo della Tetralogia L’Anello del Nibelungo di Richard Wagner. Per la cronaca, il 5 gennaio, a Colonia, nasceva Konrad Adenauer, uno dei padri fondatori della Comunità europea e cancelliere della Germania Ovest dal 1949 al 1963, gli anni della ricostruzione e, prima ancora, della rimozione.
I giorni del crepuscolo, della sterilità, del rammarico, galleggiavano tutti nelle pozzanghere di quella notte definitiva. La vita è trascorsa e, nel futuro del peggio, l’ultimo rifugio potrebbe essere la lettura dei documenti di famiglia: alimentarsi del passato.
Il romanzo I Buddenbrook, sottotitolato Decadenza di una famiglia, esce nel 1901* dopo un braccio di ferro tra l’editore che avrebbe voluto tagliare metà del manoscritto e l’autore che aveva rifiutato. Thomas Mann aveva ventisei anni. Inizialmente, il testo avrebbe dovuto essere un racconto a quattro mani con Heinrich, il fratello maggiore poi autore del magnifico L’Angelo Azzurro.
Heinrich viveva a Palestrina e a Roma e lì Thomas lo raggiunse. Come una delle otto donne a lutto, Thomas scandagliò la memoria verbale e documentale della famiglia, aiutato da madre e sorella e compose in un puzzle la parziale minuta del libro.
Scansò la socialità, i luoghi di trasgressione, l’euforia cameratesca. Studiava e scriveva, strutturato di una rigida educazione e di studi di pari livello.
Era educato alla lettura dell’esistenza nella prospettiva binaria del distacco e della pietas.
Questa sua architettura narrativa, vertiginosa in sé, qual è quella di Zola, di Hugo, Dostoevskij e Tolstoi, è anche l’altra cronaca di un secolo che confluisce nel successivo trasportando nella corrente limacciosa tronchi sradicati e rottami.
La prima edizione restò sugli scaffali per la dimensione da vocabolario. La seguente, divise in due volumi le settecento pagine e le vendite decollarono.
La Lubecca benpensante degli inviti incrociati si chiese come Thomas Mann avesse potuto raccontare dal di dentro il declino non solo economico della sua famiglia e si ingegnò per riconoscersi in questo e in quell’altro personaggio, anche minore se non di contorno. Lo facevano tutti lambiccandosi più sul non detto che sul narrato.
Tutti ma non la protagonista assoluta, la morte, quella della Montagna Incantata – perché mai cambiare un titolo perfetto? -, della Morte a Venezia, del Doctor Faustus.
Morte come voce da mezzo soprano nel recital della decadenza, nell’atto finale del confronto della borghesia con il proletariato con cui aveva combattuto, per tutto il diciannovesimo secolo, l’aristocrazia dei privilegi.
Era stata la borghesia della committenza artistica come forma d’investimento; quindi, senza ideali che non fossero il costo e la riconoscibilità come certificazione di avanzata sociale. Il successo materiale era considerato la prova della divina benevolenza che premiava i migliori. I parvenus edotti e il galateo.
L’animo artistico andava bene in casa d’altri; era una curiosità pericolosa che non fruttava reddito né prestigio. Era il regime del giudizio di valore cui tutto è rinviato, nell’ottuso rimbalzo di due domande: quanto costa se lo compro, quanto prendo se lo vendo.
La proficuità come non negoziabile dote morale percola anche nella gestione delle ragioni del cuore, come ha fatto Tony, contraddittoria, luminescente, autentica anima borghese nell’opacità della famiglia. Affastellerà due divorzi e un amore di gioventù, l’unico della vita. Il padre le aveva scritto parole da manuale di una torpida coscienza. Non siamo (…) nati per quella, che con occhi miopi reputiamo la nostra piccola felicità personale, perché non siamo creature sciolte, indipendenti e autonome, ma anelli di una catena e non saremmo immaginabili come siamo senza la serie di coloro che ci hanno preceduto e indicato la strada.
Il nipote come il figlio, il figlio come il padre, il padre come il nonno, nell’asfissia della libertà individuale.
La fine. Muore Johann come ha vissuto, muore Klara lontana da casa, muore Johann Junior, solo nella sua stanza e la vedova Elizabeth segue il marito nella tomba; Thomas spira davanti a casa, nel fango; suo figlio, l’adolescente Hanno di cui non ha mai voluto comprendere la sua poetica messe di predisposizioni artistiche, di purezza vitale, di angelica bontà, ha ceduto all’assalto del tifo ed è spirato nell’età innocente dopo i tanti giorni dell’infelicità famigliare, com’è nel beau geste di un eroe solitario, unico vincitore tra i tanti Buddenbrook. Se fosse vissuto, l’avrei visto in gondola a Venezia, sul Canal Grande, avvolto dall’Adagietto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler…
L’ineluttabilità del finito è nel quotidiano rifiuto dell’altro se non è riflesso nello specchio. Non si accetta l’urgenza dell’astratto, la sua capacità esemplare di raccontare, di sintetizzare, non per dire in minor tempo ma per concetti e simboli. Cogliere l’invisibile è un gesto d’intelligenza che il pragmatismo mercantile pretende di negare. Gerda al marito: Thomas, una volta per tutte, di musica quanto arte non ne capirai mai nulla, e per quanto intelligente, non capirai mai che è qualcosa di più che un passatempo da dopo pasto e un godimento per le orecchie. In musica ti sfugge il senso del volgare, che invece non ti manca altrove… ed è questo il criterio per comprendere l’arte.
L’altra morte, repetita juvant, la ritroveremo nel capolavoro La Montagna Incantata, che, con I Buddenbrook, varranno all’autore il Nobel per la Letteratura del 1929.
È il 1835. La nuova casa di Meng Strasse è tirata a lustro. La floridezza è un pranzo degno di Vatel organizzato per il settantesimo compleanno di Johann Buddenbrook. Sfoggio discreto ma esibito di portate, porcellane, servizi d’argento, vini da intenditori… e nella rilassata conversazione del benessere che fa sfoggio di erudizione quando non di cultura antologica, di apprezzamenti e critiche composte, di ovvietà ben pronunciate che rimbalzano di voce in voce.
Da qui in poi, la prospettiva storica è presente ma non è decisiva, diversamente da altre saghe famigliari. La capacità descrittiva e l’introspezione psicologica di Thomas Mann sono straordinarie per sintesi, compiutezza, profondità, tatto. La componente brasiliana del suo sangue, da parte di madre, gli ha giovato.
La parabola del giavellotto nel buio ha già iniziato la fase discendente. È questione di tempo e il Thomas del romanzo, nel suo tardivo straniamento, sfilerà la maschera di cartapesta dell’uomo in crisi nel secolo che rappresenta e che lo rappresenta.
Pierre Drieu la Rochelle scriverà con tutt’altro animo e in tutt’altro momento, che le chiese sono rimaste senza Dio e i palazzi senza re.
Le otto donne a lutto, nel silenzio crepitante del diluvio, sono anche le vestali premonitrici dell’apocalisse nell’Europa dell’imminente follia che scriverà la parola fine sul primato dei valori di cui si faceva vanto.
Il 7 agosto 1914 – la Grande Guerra era iniziata il 28 luglio – Thomas scriveva al fratello Heinrich: Sono come trasognato e tuttavia ci si deve davvero vergognare di non aver ritenuto possibile la catastrofe, di non aver visto il suo approssimarsi. Quale tormento! Come apparirà l’Europa, interiormente ed esteriormente quando sarà passata?
Tra la doppia ricorrenza del centocinquantesimo dalla nascita e del settantantesimo dalla morte (1875-1955), è trascorsa la vita di Thomas Mann: un matrimonio, sei figli, l’esodo in Svizzera e negli Stati Uniti, un’ammissione non facile, la morte da arteriosclerotico preceduta dallo spegnersi della sua eccezionale mente. Si è assopito chiacchierando con Kröger sceso dalla carrozza, in un altrove, con Settembrini, Nafta e Von Aschenbach. La grande letteratura è capace di tutto.
*I Buddenbrook è stato pubblicato in Italia nel 1930 da Attilio Barion Editore, dall’Istituto Editoriale Italiano, da Einaudi, Mondadori, Garzanti e Newton Compton.