Ottant’anni fa il Nobel alla poetessa cilena di Desolación
Vicuña è una protrusione a Nord della colonna vertebrale cilena.
Ventimila abitanti, provincia dell’Elqui, capoluogo Coquimbo.
Lì, il vento puelche salta le montagne e rastrella le nubi; gli astrofili osservano il cielo incombente, le vigogne brucano finché la luce della sera allunga le ombre sull’altopiano. Villaggi, coagulati attorno a una chiesa e all’ufficio postale, congiunti da una carretera. Da qualche parte, fischia la locomotiva.
La scuola è una stanza con il pavimento di terra battuta, banchi di legno scarabocchiati e il crocifisso.
L’America Latina è un posto in un altrove, confine di spazi senza confine non solo geografici; il mondo termina e ricomincia, percepito nel silenzio in cui parlano le anime, sdoppiate negli uomini e nei luoghi. Nell’atanor ribollono pozioni magiche, elicoidi dalla frastagliata genetica percettiva di popoli giunti da lontano e di altri, arrivati non si sa come.
Ovunque è Macondo e ha una voce.
Gli annali di Vicuña sarebbero solo un elenco di date e nomi se, il 7 aprile 1889, non fosse nata Lucila de Maria del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, poetessa Premio Nobel 1945 come Gabriela Mistral, nom de plûme che rimandava ai poeti Gabriele D’Annunzio e Frédéric Mistral, occitano, Nobel per la Poesia 1904, cui è stata dedicata una rosa dalla bellezza sleale; il suo cognome è il vento che soffia da Nord Ovest.
La madre di Lucila era arrivata pochi giorni prima del parto dal villaggio di Montegrande, dove la figlia vivrà l’infanzia, perché la creatura nascesse in una città e non in un presepe di poche case, come se la carta d’identità equivalesse a un diploma. L’Escuela Rural de Montegrande, dove studierà, non più ampia di un capanno, è monumento nazionale.
Gabriela avrebbe potuto essere la polena insabbiata, raccolta dall’altro cileno premiato dall’Accademia di Svezia, Pablo Neruda, riversa sulle spiagge di Magalhäes, là dove il triangolo continentale diviso tra portoghese e spagnolo, separa l’Atlantico dal Pacifico; il visionario avvocato francese Orélie Antoine de Tounens, nel 1860 si proclamò re di Patagonia e Auracania. Incoronato dai cacique, finì in manicomio e tornò nella sua Tourtoirac, in Dordogna, ad occuparsi di lampioni a gas.
Gabriela sarà un’insegnante girovaga poco più grande dei suoi allievi, già quindicenne, una delle tante signorine abilitate de facto alla cattedra dalla penuria di docenti, magari con l’ambizione di un liceo di Santiago e di un buon matrimonio.
Tra gli allievi, avrà Ricardo Eliécer Neftali Reyes Basoalto, poeta già da ragazzino che scriveva avversato dal padre dipendente delle ferrovie, e sceglierà un altro cognome per non essere riconosciuto, quello dello scrittore, poeta e giornalista ceko Jan Neruda.
Sarà Pablo Neruda, una delle voci più alte del Novecento.
La precoce passione per lo studio e per l’insegnamento le venivano dalla sorellastra Emelina – la madre Petronila, vedova, aveva sposato il padre di Lucila, don Jerónimo – e dalla nonna paterna con la quale leggeva la Bibbia. Vero o no che fosse, la poetessa testimoniava di una ascendenza ebraica. Sono nata da una carne tagliata nell’arida fibra d’Israele. La “sua” cronaca è stata più volte asserita e smentita quando concerneva la sfera personale, come se il tempo fosse stato sempre al passato e dunque mai uscito dalla dimensione del perduto.
Le congiunzioni degli accadimenti hanno voluto altro, la nomade ricerca vitale nella peregrinazione dolente: l’inimmaginabile traiettoria di Gabriela Mistral è stata disegnata da tre vettori di forza; l’abbandono del padre, i suicidi di un innamorato, Romelio Urreta e di un nipote. Ne aggiungo un quarto, la mancata maternità trasfigurata nell’amore per i bambini e gli adolescenti nella liturgia quotidiana dell’insegnamento.
Gabriela Mistral costruirà il suo curriculum insegnando anche nell’ultimo luogo civilizzato del Paese, a Punta Arenas, l’avamposto sul nulla e poi sull’Antartide, tra indios alcolizzati, frati missionari, carbonere e saccheggiatori di relitti.
Diventerà un’eroina transnazionale, voce non equalizzata della gente che mandava a memoria le sue parole, come un inno di bandiera, una ragione di orgoglio condiviso prima che le parole, apparse su periodici e quotidiani, diventassero pagine di un libro. Scritte a gessetto sulla lavagna, ricopiate nei quaderni, mandate a memoria, lette in famiglia, interpretate durante le serate letterarie, sperimentate nel vissuto e ritrovate, scritte, da chi fa meglio di chiunque altro nel dire.
Il tutto, nei fatti, per la raccolta, nomen omen, Desolación, retta dalle tre pietre angolari della Fede, della Poesia e della Natura.
Bellezza come ombra di Dio, Arte come afflato del Creatore e creatore l’uomo stesso, che deve provare vergogna per la sua creazione, sempre inferiore al sogno.
È il rigoroso Decalogo dell’artista cui si è sempre attenuta. Le raccolte successive, pur nell’identica “cifra” poetica e diffuse in numeri impensabili anche negli Stati Uniti, Ternura, Tala, Lagar, sono di fronte al fatto compiuto di Desolación. L’espressione non di rado si indurisce, assurge a una dimensione quasi violenta nel percepire di trovarsi nell’epicentro di un mistero insondabile. Prevale su tutto l’ansito testimoniale, con buona pace di chi ne ha criticato la versificazione, la discordanza tonale, le linee disuguali dell’armonia. Accademie che hanno solo sfogliato Ternura, pubblicato in Spagna, una raccolta di ninna-nanne e filastrocche cui fa difetto solo la traduzione in altre lingue.
Sono, invece, frammenti di vita avulsi da ogni retorica, meticci di lingua spagnola e di idiomi senza tempo; sono respiro, sguardo, percezione, intesa. Sono terra, attesa, pianto e pioggia.
Amo le cose che non ebbi /con le altre che non ho più:/ tocco l’acqua silenziosa,/ distesa sui freddi prati, /che senza vento rabbrividiva /in un orto che era il mio orto []
Penso alla soglia dove lasciai passi allegri che non ho più/ e sulla soglia vedo una piaga/piena di muschio e silenzio…
Gabriela diventerà testimonianza attiva viaggiando in mezzo mondo nelle migrazioni di incarichi governativi e istituzionali.
La poesia sa precedere l’urgenza: la prosa non sa dire tutto.
Lo era, urgente, la poesia, alla fine del 1945, nello straniamento seguito a due guerre mondiali iniziate e concluse in trent’anni.
Urgente come la notizia dell’assegnazione del premio, giunta nell’immobilità del dolore per la morte a cui non credette mai, di Juan Miguel Godoy, forse figlio di un fratellastro.
Il 10 dicembre, 1945 a Stoccolma, vestita di velluto, quasi dimessa, fu definita dal poeta Hjalmar Gullberg difronte a re Gustavo V di Svezia, Regina spirituale di tutta l’America Latina. la più grande cantatrice della misericordia e della maternità.
Due parole di donna, queste ultime, antiche più della venuta del primo giorno.
Quarant’anni prima, aveva vinto a Santiago i Juegos Floreales con la raccolta Sonetos de la muerte. Aveva “solo” venticinque anni ma il suo era un animo compiuto.
Desolación termina con Voto.
Dio mi perdoni questo libro amaro e me lo perdonino anche tutti gli uomini che sentono la vita come una dolcezza. In queste cento poesie resta sanguinante un dolore passato nel quale la canzone si insanguinò per confortarmi. Lo lascio dietro di me come in un oscuro avvallamento e lungo più clementi sentieri salgo verso gli altipiani spirituali dove una vasta luce scenderà sui miei giorni. Di là canterò le parole della speranza, canterò come lo ha voluto un uomo misericordioso,” per consolare gli uomini”.
Vivrà negli Stati Uniti fino alla morte, in un ospedale di New York, nel gennaio 1957. Il cancro. Per tempo aveva disposto la sepoltura nella Montegrande dell’infanzia.
In Cent’anni di solitudine, del Nobel colombiano Gabriel García Màrquez, il visionario Arcadio Buendía dice alla moglie Ursula Iguarán, che non voleva partire per l’ignoto alla ricerca di un luogo migliore, Non si è di nessun posto finché non si ha un morto sottoterra.
Il cerchio era chiuso.