Solzhenitsyn, cinquant’anni dopo – L’Occidente degli asserviti lo osteggiò. Aveva scritto la verità sul “paradiso” sovietico

Per cambiare tutto bisogna non cambiare nulla, che sia la Sicilia borbonica del Gattopardo o la Russia post Andropov. Il comunismo di Mosca, dopo la caduta del muro di Berlino e la disgregazione della galassia falce e martello, vira nel nazionalismo, innovando nulla o quasi di quell’immensità geografica, politica, sociale, economica, culturale e scientifica, anchilosata dai giorni della Rivoluzione d’Ottobre 1917.
Le modalità del potere, le purghe di Stato, la deterrenza della paura, l’intimidazione, la carcerazione, la cancellazione dalla vita sociale. Ne parlottava, en glissant, la gauche, vantando la relativa libertà di espressione degli scrittori d’oltre cortina, dopo la denuncia di Krusciov delle mostruosità perpetrate da Stalin.

La premessa, rimanda a questi giorni di cinquant’anni fa, quando Arcipelago Gulag di Alexandr Solzhenitsyn, Premio Nobel per la Letteratura 1970, dattiloscritto da una collaboratrice dell’autore, Elizaveta Voronjanskaja, poco dopo morta suicida, arrivò fortunosamente in Francia e fu pubblicato. Sarà una pietra angolare del Novecento, così della letteratura come della decodifica politica di settant’anni di storia.
L’Occidente fu informato, nero su bianco, di cosa era accaduto, di cosa poteva accadere in URSS per aver manifestato il proprio dissenso verso il regime, anche “solo” in una lettera a un amico. Non c’era un solo artificio letterario, nella testimonianza di otto anni di detenzione in un campo di lavoro, che fosse a vantaggio della percorribilità narrativa; la cronaca della verità, si coagulava nella testimonianza univoca di centinaia di prigionieri politici. Sappiamo del nostro tempo grazie allo scrittore nato a Kislovodsk nel 1918, morto a Mosca nel 2008.

Di recente, Maria Zacharova, portavoce del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, ha chiesto a quale causa possa mai servire la verità. Napoleone Bonaparte, sottolineava come metà della burocrazia zarista fosse impegnata nell’embargo delle notizie dal mondo e l’altra, nell’impedire che qualcosa percolasse da san Pietroburgo.
Chi abbia letto l’ucraino (!) Gogol, sa quanto fosse soffocante la macchina dello stato per milioni di Cicicov: Le anime morte, L’Ispettore Generale…

Gulag è un aggrovigliato acronimo; fa parte del linguaggio corrente, nella sovrapponibilità di significante e significato, per la risonanza che ebbe il testo, anche a prescindere dalla non malleabilità dell’autore, che, a tempo debito, in un’università statunitense, non risparmiò critiche stringenti all’Occidente dell’edonismo reaganiano, definito in declino irreversibile per la conscia eutanasia dei valori spirituali, non dissimile da quella del totalitarismo, dell’ateo comunismo.
Si ritrovò ospite scomodo, Solzhenitsin, uscito forse da una poesia di Sergej Esenin della Russia rurale, un pope senza assoluzioni da impartire, isolato volontario nel suo esilio americano, lontano dalla terra dei suoi morti. 

Mutatis mutandis, il milieu intellettuale europeo non seppe far di meglio, anzi: non prese le distanze da un noto editore di manuali per costruire ordigni esplosivi contro lo Stato, ma aprì il vaso di Pandora dei distinguo, della preda di distanza e del diniego in quella che non fu una pur legittima critica ma una strutturata delegittimazione. Solzhenitsin aveva informato l’Occidente, libero di votare chi più gli aggradava, di poter leggere il quotidiano ritenuto più attendibile e altrettanto di scrivere senza timore, di quanti e quali fossero i gironi dell’inferno proletario. Aveva osato.
La reazione dei cattivi maestri, sedicenti detentori del sapere, fu compatta nella semina del discredito, nonostante il macigno del recente pregresso: Pasternak, Siniavskij, Daniel, Terc, Brodskij.

Pinochet aveva fatto assassinare Allende? Il dittatore cileno era un ammiratore di Solzhenitsyn, scrisse Le Monde. Alvaro Cunal, poi segretario generale del Partito Comunista Portoghese, vissuto a lungo a Parigi, lo liquidò come “traditore”. Il duro e puro segretario comunista francese, Marchais, poco mancò che lo trattasse da criminale. Maurice Chavardès- Max Nicet, Jean Trojat, Gilbert Cesbron furono alcuni dei fantaccini schierati da Marchais a difesa del monopolio intellettuale della Sinistra. L’epiteto di “scrittore vlassoviano”, dal cognome del generale dell’Armata Rossa passato alla Wermacht, la dice lunga sulla volontà di Marchais e sodali. 
Bontà loro, si parlò di efficace giornalismo che è ben altro del valore letterario di un’opera, di ricorrente travaso d’orgoglio, di abitudine al commento. Toni e argomenti erano questi, come se i conti con gli anni di connivente silenzio non fossero altrettanti nodi che a breve sarebbero arrivati al pettine della storia. 
Paradosso nel paradosso, molti di coloro che avevano criticato Solzhenitsyn, ammisero di non averlo letto. Disonestà intellettuale.
A far da contraltare, alcune tra le migliori teste d’uovo transalpine, tra cui il giornalista del Figaro Francois Chalais, l’accademico di Francia Paul Güth, lo scrittore e giornalista Jean d’Ormesson, l’editore e saggista Dominique de Roux, che evidenziarono il profondo valore letterario e testimoniale del testo. La deflagrazione era avvenuta: il monolite della cultura comunista si fratturava sotto il maglio della verità che illuminava la sofferenza del popolo che aveva perso venti milioni di uomini in guerra e altrettanti nel massacro dei kulaki.

L’Italia delle spartizioni politiche tra DC, PSI e PCI, che allineavano le truppe nella RAI, nella terza pagina dei quotidiani, nelle direzioni editoriali e nelle giurie dei premi letterari, non diversamente dai ministeri, dalle commissioni e dalle partecipate, reagì con un’ evoluzione del  “tengo famiglia”, ad esclusione di pochi, pochissimi, come Bettiza, “volontario prosciugamento della figura di Solgenitsin”, come Franco Fortini e Giancarlo Vigorelli, poi presidente della Casa del Manzoni, che, dal suo studio milanese, recitò il j’accuse: “Critici di regime, a stipendio di prefazioni e presentazioni, mezze figure della comparsate, dissero che era un mediocre. Loro…”
Moravia: “Ci spiace per Solgenitsin, nazionalista slavofilo della più bell’acqua, ma gli orrori da lui giustamente denunziati sembrano piuttosto originati da certi caratteri storici del suo paese piuttosto che dal socialismo, il quale, con varie durezze, è stato una cosa in Russia e un’altra negli altri paesi comunisti”. Cassola: “un retore di nessun valore”. Il futuro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel 1956 aveva plaudito all’invasione sovietica dell’Ungheria, sulla rivista Rinascita, definì l’espulsione dello scrittore dall’URSS “la miglior soluzione”. Umberto Eco: “Un Dostoevskij da strapazzo”. Adso da Melk e Guglielmo da Baskerville che fine faranno sei anni dopo, alla pubblicazione del Nome della Rosa?

La coscienza e la memoria sono debiti assai difficilmente onorabili. La cultura ha molte cambiali in scadenza. Da mezzo secolo e oltre.