La tastiera degli sdentati

Li definiamo “leoni da tastiera” per la rima baciata tra il re della foresta e la più ricorrente definizione degli attributi di un sesso maschile. La tastiera può trovare un partner nella dentiera, di ‘sti tempi è meglio volare basso, che non si sa mai.

Ci sono sempre stati, gli adepti delle lettere anonime e dei nom de plûme, delatori dei commissari politici e dei capi fabbricato, spie, delegittimatori… anche tra i giornalisti, meglio leggerli che conoscerli, diceva Montanelli, che pure qualche scheletro nell’armadio -o nel cassetto della scrivania al Corriere- l’aveva anche lui.

Senza scomodare l’Indro nazionale, a sessant’anni e due mesi giusti dalla morte, salvo le mezze paginate per gli inediti tornati a galla ottant’anni dopo il furto a mani di un sedicente resistente, già contabile del nostro Céline, il polverone alzato in questi giorni dagli -appunto!- “c******* da dentiera”, terrapiattisti  o altro che siano, presto in grado di completare la metamorfosi in gilet jaune, torna in mente l’inguacchio da terza pagina che la stampa allestì nel 1961 per commentare la morte di un uomo decorato al valor militare, scrittore straordinario con tre pamphlet antisemiti a carico e altrettanti, almeno!, capolavori letterari. Ignorato in Francia -l’embargo culturale è prerogativa della gauche come un parente di cui vergognarsi- in Italia se la passò più o meno uguale, qualche trafiletto e una pezzullessa in cui chi scrive fa anche peggio, dicendo tutto il mediocre male che gli riesce di impastare, avvalorando l’articolo con l’excusatio non petita di non aver letto perché trattenuto dall’angelo custode, come un allievo di Don Bosco alle prese con il diavolo tentatore e il barattolo di marmellata.

Attingo dal mio libro: “Il corrispondente da Parigi del quotidiano torinese La Stampa, Sandro Volta, scrisse un articolo d’apertura per la morte di Céline, definendo i romanzi un insieme di oscenità, odio, scetticismo e antisemitismo rabbioso… Un impasto d’immondizia… Fortunatamente non riuscimmo a superare neppure la decima parte delle mille pagine del suo primo libro, Voyage au but de la nuit respinti da un’istintiva ripugnanza… Falso! Mille pagine? L’edizione di Corbaccio del 1933 ne ha 494. Ergo, non l’ha letto, lo premette, scrive di quel che non sa! Non pago, aggiunge: l’incorreggibile commediante era arrivato a creare la leggenda del proprio personaggio. Ma chi? In quale film? Un articolo in cui abbondano le fantasie: era figlio d’un ferroviere e d’una ricamatrice. Falso due volte. Assunta la direzione della clinica del suocero, il giovanotto anarcoide si trasformò in un professionista agiato… Falso altre due volte. Ebbe l’idea di raccontare le sue esperienze in un libro che, sotto l’apparenza di una straordinaria verità, non era altro che la rimasticatura di tutte le ideologie post-nietzchiane. Falso. E di Mort à credit, un linguaggio tracotante, zeppo di frasi oscene… è un libro immondo… era ormai un uomo finito…

Sandro Volta era stato corrispondente durante la guerra civile spagnola. Dalla parte dei falangisti di Francisco Franco, gli assassini di Federico Garcia Lorca. Aveva scritto per Vallecchi il propagandistico Spagna a ferro e fuoco. Che non fosse Bernanos, Sandro Volta, è evidente. Bernanos, cattolico, conservatore, con un figlio volontario nella Falange, vede, inorridisce e scrive I grandi cimiteri sotto la Luna. Altra pasta, quella di Volta, che pubblica Graziani a Neghelli omaggiando il generale Graziani che aveva utilizzato i gas asfissianti durante la Campagna d’Etiopia; era stato al seguito della Wehrmacht nella Campagna di Francia, dell’Armir in Unione Sovietica, dove, nel 1943, dopo il disastro del dicembre 1942, aveva scritto Ultimo treno da Mosca con tanto di fascio littorio in copertina, ma esaltando Stalin. Non dico di più. Questa è cronaca! L’articolo di Sandro Volta è in buona compagnia: la stampa internazionale e quella francese si degnarono di spendere poche righe per la morte di Céline. Riposi in pace con sé stesso, Volta, ha tutto il tempo necessario”.

Tanto per dire di cos’era capace la malafede dell’arroganza, sessant’anni prima dei c******* da tastiera. In piazza Dante, a Verona, c’è una secolare buca per inoltrare agli inquirenti le denunce segrete contro usurai e dintorni. Era affollata di vendette e rancori, di tradimenti e viltà. Funzionava anche senza wi-fi, firme inventate e pseudonimi presi da chi è appena morto, giusto per dire qual è la targa della macchina.

Il tema del giorno è la lite in yacht di Chiara Ferragni -toh, parla!-  e del marito rapper in Lamborghini e unghie verdi,  pendant al collo con Topolino crocefisso e ambizioni da demiurgo, Fedez. E sì che di psicologi bravi, in giro, ce ne sono molti, stante che i più non muoiono di botto ma se la preparano con trenta o quarant’anni d’anticipo, la morte loro, e ci sono affezionati da non credere, ne parlano sempre. Ora che le ferie sono finite, poi…